Follemente corretto (11) – Grassofobia

Sono in molti, non solo a destra, a ritenere che il Ddl Zan, naufragato al Senato nel 2021 per le rigidità del Pd di Letta, fosse non solo pericoloso per la libertà di opinione, ma anche mal impostato filosoficamente, logicamente.

Sul piano filosofico, è stato notato che la legge non aggiunge alcun nuovo diritto per le minoranze, e che appare inquietante – oltreché vagamente medioevale – usare la legge penale per reprimere o indirizzare i sentimenti, quali che essi siano. In questo senso si sono pronunciati, ad esempio, due uomini di sinistra come Piero Sansonetti (direttore del “Riformista”) e Tommaso Cerno, quando era ancora parlamentare del Pd.

Sul piano logico e (terminologico), è stato osservato che, se pure si vuole instaurare la pratica aberrante di usare il codice penale contro i sentimenti, può avere senso perseguire un sentimento aggressivo come l’odio, ma non certo la paura. Fobia in greco, e pure in italiano, significa paura, come nella parola agorafobia (paura della piazza, cioè della folla). Perseguire xenofobia, omofobia, transfobia, equivale a sostenere che la gente non ha diritto di manifestare sentimenti di paura verso determinate categorie di persone.

Meno attenzione ha ricevuto un altro limite del Ddl Zan, un limite che potremmo chiamare di natura concettuale. Come noto, l’operazione principale del Ddl Zan è di estendere il raggio di azione della legge Mancino (legge 205, 25 giugno 1993). Con la legge Mancino, le idee e le azioni discriminatorie punite con il carcere erano essenzialmente quelle basate su “motivi razziali, etnici, religiosi o nazionali”. Con la legge Zan si proponeva di allungare l’elenco a cinque nuovi tipi di motivi, e precisamente quelli “fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità”.

Stranamente, pochi hanno notato che questo allungamento del brodo delle fobie apriva una falla logico-concettuale irreparabile nella lotta all’odio e alle discriminazioni: la lista delle categorie e delle condizioni per le quali si può nutrire ostilità, esercitare discriminazioni, mettere in atto comportamenti bullistici è potenzialmente infinita. Oggi ci preoccupiamo di proteggere gay, trans o disabili, ma basta dare un’occhiata a quel che succede in una scuola per rendersi conto che la lista delle aspiranti vittime o minoranze da proteggere è aperta, e necessariamente destinata ad allungarsi. Vittime di atti più o meno espliciti di bullismo, sopraffazione, stigmatizzazione, emarginazione non sono solo le “minoranze sessuali”, religiose o etniche, ma non di rado possono divenirlo i secchioni, i timidi, i primi della classe, le schiappe, le brutte, i grassi.

Già, i grassi. L’ultima novità è la campagna contro una nuova presunta fobia: quella verso chi è obeso o in sovrappeso. Una campagna che, in tutti gli ambiti – dal mondo delle casalinghe, alle scuole, allo star system – stigmatizza gli atteggiamenti “grassofobici”. Dove per grassofobia si intende non solo il dileggio di chi è grasso, ma anche qualsiasi consiglio amichevole di adozione di uno stile alimentare volto a tenere sotto controllo il peso.

Contro il peccato di grassofobia, vengono brandite un nugolo di parole inglesi, sia positive, come body positivity, o fat acceptance (accettazione del grasso) sia negative, come weight bias e diet culture (la credenza che esista un peso ottimale, e che lo si debba inseguire con la dieta). Il tutto per proclamare il principio, molto controverso scientificamente, secondo cui si può essere in salute a qualsiasi peso (Haes, o health at every size), o meglio a qualsiasi livello del Bmi (body mass index), l’indice che stabilisce il peso ottimale per ogni statura.

A quanto pare, quando il Pd ripresenterà il Ddl Zan, dovrà inserire i grassi insieme ai disabili, ai gay e ai trans. In attesa che la prossima minoranza stigmatizzata denunci una nuova fobia, ed esiga l’allungamento della lista.




L’industria della bontà

Ma che cosa combinano le organizzazioni benefiche, siano esse Ong, cooperative, Onlus varie?

Viene da chiederselo, dopo il doppio scandalo che ha coinvolto, quasi in simultanea, le cooperative della famiglia di Soumahoro e le Ong del Qatargate. Ma la domanda è sbagliata. Le industrie della bontà fanno il loro mestiere, che è quello di riprodurre e possibilmente espandere sé stesse, come fanno tutte le burocrazie. E a questo scopo si dotano di sponsor e testimonial, che svolgono il ruolo che – nelle industrie vere – è svolto dalla pubblicità.

Le domande giuste sono altre, e riguardano noi stessi.

Prima domanda: su che basi, per tanti anni, la sinistra ha dipinto sé stessa come animata dai più alti ideali, e la destra come guidata dalle più basse passioni? Se non vi fosse stato questo racconto, insistito e quasi ossessivo, la caduta di oggi sarebbe meno rovinosa. Perché quel che fa male, al mondo progressista, non sono i fatti in sé – le malversazioni, la corruzione, gli arricchimenti indebiti – ma il contrasto fra le vergini idee e i non sempre casti appetiti. Come del resto succede con la Chiesa, dove i preti pedofili fanno orrore e scandalo proprio perché sono preti, dediti a insegnare a noi peccatori la morale e la virtù.

Ma c’è anche una seconda domanda: perché ci ostiniamo a giudicare le industrie della bontà per le loro intenzioni e non per i loro comportamenti? Perché, per decidere di donare, ci lasciamo guidare dai loro messaggi pubblicitari, commoventi e vagamente ricattatori (se tu non doni, questo bimbo morirà)? Perché non pensiamo mai di analizzarne i bilanci, le fonti di finanziamento, gli stipendi dei dirigenti e consulenti, la quota che va a spese di funzionamento e la quota che va effettivamente in aiuti?

Lo so, perché è noioso. E soprattutto è prosa. A noi piace la poesia. Però la prosa aiuta a capire, e a limitare i danni. Se anziché compiacersi di essere stata messa nel board di una Ong, Emma Bonino si fosse annoiata ad andare alle riunioni e a leggerne i bilanci, forse le cose sarebbero andate in modo meno criminale. Se anziché compiacersi di consegnare un premio alla suocera di Soumahoro, Laura Boldrini avesse preteso un rendiconto dettagliato dagli enti che avevano deciso di proclamarla “imprenditrice straniera dell’anno”, forse qualche dubbio avrebbe trovato la strada per emergere.

E qui veniamo al cuore del problema. La realtà è che anche l’attività di premiare è, fondamentalmente, autopromozione. L’autodifesa di Laura Boldrini, senza volerlo, illustra il punto nel modo più chiaro. Quando Valerio Staffelli le consegna il tapiro d’oro per l’infortunio in cui era cascata, l’ex presidente della Camera risponde: “Io mi sono limitata a consegnare un premio che era stato deciso da una giuria d’onore di cui io non facevo parte. La giuria era composta dai rappresentanti di MoneyGram, delle associazioni degli artigiani, di Confindustria e delle piccole e medie imprese. Con una giuria di questo tipo, chi non si fida?”

Già, chi non si fida?

Tutti ci fidiamo, ma è qui che sta l’errore. Perché l’impulso che spinge un’associazione a istituire un premio è lo stesso che spinge il politico o la politica a consegnarlo: fare pubblicità a sé stessi. E da questo punto di vista, l’autopromozione, i premiati non sono tutti eguali. Ci sono premiati banali, e ci sono premiati sfavillanti. Come ci sono candidati scialbi, e candidati luccicanti. Premiare una commercialista svizzera di Varese non è come premiare una signora africana, profuga del Rwanda e paladina degli immigrati. Candidare un avvocato del Nord non è come candidare un bracciante nero del Sud.

E torniamo sempre lì: la poesia e la prosa, il sogno e la realtà. Noi preferiamo la poesia, la prosa ci annoia profondamente. L’idea che quella della bontà sia anche un’industria non ci piace. La fatica di studiarla, con la pazienza e l’attenzione con cui si studia un “piano industriale”, non abbiamo nessuna intenzione di accollarcela. Preferiamo scegliere in base alla pubblicità. Se siamo individui, dando i nostri soldi a chi è più in grado di scaldare i nostri cuori, se siamo imprese, istituzioni, organizzazioni, sponsorizzando o finanziando le iniziative che più ci danno lustro.

Ma allora non possiamo lamentarci troppo dei Soumahoro e dei parlamentari corrotti di Bruxelles: in un mondo basato sulla pubblicità e sul sentimentalismo, sono normalissimi incidenti di percorso.




L’auto-jamming della sinistra

Sapete che cos’è un jammer? Fondamentalmente, è un apparecchio per disturbare e neutralizzare, fino a mandarlo in tilt, qualsiasi dispositivo che funzioni emettendo onde radio. Ladri, servizi segreti, investigatori, guardie del corpo se ne servono quotidianamente, in modo più o meno legale, per rilevare e confondere i propri nemici, in una sorta di evoluzione moderna e ipertecnologica dell’antico comando “facite ammuina”.

Da quando la destra è al governo, però, c’è una novità assoluta: il jamming, anzi l’auto-jamming è entrato prepotentemente nell’arena politica. Vediamo come funziona.

La sinistra odia la destra, ed è convinta (per lo più sinceramente) che da quella parte lì non possa uscire nulla di buono. E infatti la destra non le fa mancare buone occasioni di conferma: prima un decreto anti-rave discutibile e mal scritto; poi una serie di condoni più o meno mascherati; poi l’innalzamento del tetto al contante; poi le restrizioni alle Ong; poi gli interventi pasticciati sul reddito di cittadinanza. Di fronte a tutto questo, la sinistra grida, strepita e si indigna, e fa benissimo a farlo, dal suo angolo visuale.

Ma poi succedono alcune cose. La destra al governo non si limita a fare e dire cose discutibili, insensate, o genuinamente di destra. La destra dice e fa anche cose di puro buonsenso, o cose che la sinistra aveva già fatto, o cose nuove ma genuinamente di sinistra; e persino cose che la sinistra poco prima le aveva chiesto di fare.

Esempi: la destra dice che, di norma, i telefonini non si possono usare in classe; la destra proclama che a scuola occorre premiare il merito; la destra vara provvedimenti molto favorevoli ai ceti popolari, e pure provvedimenti molto sgraditi ai ricchi e ai ceti medi.

Ed è qui che scatta l’auto-jamming, che colpisce un po’ tutto il mondo progressista, ma tocca vertici inarrivabili di masochismo con il Pd. Anziché compiacersi che la destra faccia anche cose condivisibili, o addirittura recepisca consigli della sinistra (ad esempio sul cuneo fiscale, o sul Pos), non resiste alla tentazione di riclassificare come negativo tutto ciò che la destra pensa, dice o fa. Può accadere, così, di ascoltare accuse di arretratezza, luddismo, anti-modernismo, ostilità alla tecnologia allorché un ministro ripropone la vecchia circolare di Fioroni (ministro del governo Prodi) sull’uso dei telefonini. E si deve assistere, con sconcerto, al fiorire di articoli e articolesse contro il merito, fino a ieri apprezzato dalla sinistra, ma – ora che piace alla destra – riconcettualizzato come strumento di selezione, discriminazione, esclusione, umiliazione dei non meritevoli. Per finire nel grottesco quando, di fronte alla legge di Bilancio, si deve registrare l’assoluta incapacità di comprendere che le misure più incisive sono pro-ceti bassi e anti-ceti alti.

Il risultato è una drammatica perdita, da parte degli esponenti della sinistra, delle proprie coordinate ideologiche e ideali. Di fronte ai segnali imprevisti della destra, la macchina mentale della sinistra non reagisce riprogrammandosi per tenerne conto e auto-correggersi, ma andando in confusione, come un impianto di allarme messo in crisi da un ladro che lo disturba con un jammer. Anziché accorgersi che la destra fa anche cose di sinistra, rinuncia alle proprie bandiere per il solo fatto che alcune di esse sono entrate nel discorso della destra. Anziché prendere atto che le proprie previsioni catastrofiche – aumento dello spread, bocciatura dell’Europa, cancellazione dei diritti civili – sono risultate clamorosamente errate, tenta maldestramente di confermare il modello che le ha generate, a dispetto di ogni evidenza empirica contraria. Insomma, si comporta nel modo che Karl Popper denunciava nel marxismo e nella psicanalisi, due modalità della conoscenza incapaci di apprendere dai propri errori.

Un modo di operare profondamente antiscientifico. Ma anche il più autolesionistico possibile.




Follemente corretto (10) – La guerra dei pronomi

Fino qualche anno fa, la politica dei pronomi, promossa dalle vestali del politicamente corretto, colpiva quasi esclusivamente le istituzioni accademiche. All’atto pratico, si trattava – essenzialmente – di evitare il maschile quando il riferimento poteva essere anche a una donna. Se scrivevi una lettera o trasmettevi una comunicazione, non potevi iniziare con il solito “cari colleghi”, ma dovevi scrivere “care colleghe e cari colleghi”, o “car*collegh*, o usare qualche diavoleria neutra (ad esempio la cosiddetta schwa: ə) per non discriminare le donne. Se mandavi un articolo alla solita rivista in lingua inglese dovevi stare attento a non usare, per riferirti a una persona che poteva essere maschio o femmina, il pronome ‘he’ (lui), ma il pronome doppio ‘he or she’, o ancor meglio ‘she or he’.

Oggi non più, specie negli Stati Uniti. Oggi ci sono quattro novità sostanziali. La prima è che la politica dei pronomi pretende di includere non solo le donne, ma qualsiasi persona “non binaria”: maschi che hanno cambiato sesso, maschi che si sentono femmine, donne che hanno cambiato sesso, femmine che si sentono maschi, persone intersessuali, maschi bisessuali, femmine bisessuali, persone che non vogliono avere un’identità sessuale o di genere, persone più o meno perennemente “fluide”, eccetera (non per nulla la vecchia sigla LGBT è evoluta in LGBTQIA+, che significa: Lesbian, Gay, Bisexual, Transgendder, Queer, Intersexual, e chi più ne ha ne metta).

La seconda novità è che la proliferazione delle minoranze non binarie (e quindi protette, in quanto diverse) non ha condotto alla ricerca di un unico pronome ‘inclusivo’ (cosa già alquanto bizzarra, in quanto artificiosa), bensì a una esplosione di pronomi, ciascuno completo della sua più o meno cervellotica declinazione. Eccone un campione:

Note: the top line is meant to indicate two separate – but similarly spelled sets of pronouns. They are ae/aer/aers and fae/faer/faers.

La terza novità è che, secondo le numerose organizzazioni che pretendono di insegnarci come parlare, la scelta del pronome è completamente arbitraria e soggettiva: è l’individuo che deve decidere con quale pronome gli altri devono chiamarlo. Un transessuale MtF (maschio che diventa femmina) può pretendere di essere chiamato con il pronome ‘xe’, un altro transessuale Mtf può esigere il pronome ‘per’, che a sua volta può essere scelto anche da una lesbica, o magari da un bisessuale.

La quarta novità è che le organizzazioni che, senza alcun mandato collettivo, promuovono la babele dei pronomi pretendono pure che, in qualsiasi conversazione, ci si presenti dichiarando i propri pronomi, si chieda all’interlocutore quali sono i suoi, e pure che – quando qualcuno sbaglia i pronomi di qualcun altro – lo si redarguisca “gentilmente”.

In un mondo in cui la maggior parte della popolazione ha problemi ben più seri, concreti, e drammatici, l’esito della guerra dei pronomi rischia di essere la creazione di nuove discriminazioni e stigmatizzazioni. Questa volta ai danni di quanti non vogliono o non possono adeguarsi ai molestatori della lingua.




Ricolfi e la sinistra che va in pezzi

  1. Come le idee di sinistra sono migrate a destra. Considerando quanto sta accadendo a Bruxelles, il titolo del suo ultimo libro è più che attuale…

Sì, la sinistra ha subito una mutazione non solo ideologica e programmatica, ma anche di natura etica. Prima le si poteva rimproverare il complesso dei migliori (il mio libro Perché siamo antipatici? è di quasi vent’anni fa), ora ad alcuni può venire il sospetto (sbagliato anche quello) di una inferiorità morale, visto che gli scandali di cooperative e Ong coinvolgono sistematicamente esponenti di quella parte politica. La realtà è più semplice: la degenerazione etica della sinistra è dovuta semplicemente al fatto che proprio la sua autorevolezza, il suo insediamento nei gangli del potere, il suo controllo totale dell’industria della bontà, la rendono il bersaglio ideale dei tentativi di corruzione. Non sono più cattivi, sono solo più corruttibili.

  1. Perché quel lessico, che una volta apparteneva ai compagni, oggi caratterizza chi è al governo del Paese?

Se si riferisce al lessico della difesa dei deboli, direi che ci sono due ragioni. La prima è che la lotta contro criminalità e immigrazione irregolare fa parte integrante della difesa dei deboli, ed ovviamente è più congeniale alla destra. La seconda ragione è che la destra oggi è egemonizzata dalla destra sociale di Giorgia Meloni, che in alcune battaglie a tutela dei deboli crede davvero. Tolta la fetta salviniana della manovra (fisco, condono, contante, flat tax), il resto è costituito da misure di tutela delle fasce deboli. E questa impostazione è destinata a rafforzarsi non appena Giorgia Meloni comincerà ad occuparsi di scuola e di promozione del merito, sulla scia dell’articolo 34 della Costituzione sui “capaci e meritevoli ma privi di mezzi”.

  1. La lezione di Berlinguer sulla questione morale è stata davvero compresa, considerando gli ultimi scandali Qatargate e Soumahoro?

Non credo, ma penso che Berlinguer avesse vita facile a moraleggiare, posto che il PCI non era mai stato al governo, e il pentapartito dava spettacolo.

  1. Occhetto dice alla Bolognina ho pianto per molto meno. A suo parere, cosa è cambiato rispetto a quel periodo?

E’ successo che la globalizzazione ha mostrato il suo lato oscuro, fatto di delocalizzazioni e perdite di posti di lavoro nei paesi avanzati. E la sinistra ha assaggiato i prelibati frutti del potere, diventando parte integrante dell’establishment. Anzi, diventando egemone all’interno dell’establishment politico-economico-culturale.

  1. Quale la differenza tra le mazzette di Qatargate e Tangentopoli?

Sono cose diversissime. Le mazzette di Tangentopoli finanziavano, abbastanza stabilmente e uniformemente, il sistema dei partiti (con le rilevanti eccezioni di PCI e MSI), le mazzette del Quatargate ingrassano una frazione (speriamo piccola) della casta che, più che governarla, amministra l’Europa.

  1. Cosa ne pensa di questi europarlamentari, che finito il loro mandato, per cui sono stati votati dai cittadini, si mettono a fare i lobbisti?

Sarà ora di cominciare a prenderne atto: la politica è una carriera come tutte le altre, dominata dall’interesse individuale. Solo che, per alcuni, tale interesse è fatto di soddisfazioni personali, potere, prestigio, più o meno piccole vanità, per altri è anche arricchimento personale. Forse favorito, paradossalmente, dai lauti emolumenti del Parlamento Europeo. Dopotutto l’appetito vien mangiando…

  1. Tra poco ci sarà il congresso dei dem, il Pd può ancora svoltare e riprendersi quei temi tanto cari? E’ sufficiente cambiare qualche nome?

Il Pd è completamente disinteressato a una discussione politica vera, che affronti temi di fondo come quelli toccati nel mio libro: difesa dei deboli, libertà di opinione, eguaglianza attraverso la cultura.

La sa una cosa? Gli esponenti del Pd sono l’unica categoria che ha completamente ignorato La mutazione. Come mai le idee di sinistra sono migrate a destra.  Il fatto è che la loro tecnica non è criticare, combattere o reprimere il dissenso, la loro tecnica è ignorare chi fa delle critiche vere, sostanziali.

La paura di discutere in campo aperto è tale che i due candidati alla segreteria – Bonaccini e Schlein – non hanno ancora avuto il coraggio di dire che cosa distingue l’uno dall’altro. Io non mi stupirei che, dopo mesi in cui vi viene detto che il Pd deve decidersi a scegliere fra riformismo e massimalismo, la soluzione sia una segreteria Bonaccini-Schlein (o Schlein-Bonaccini), che – ancora una volta – lascia in sospeso tutti i nodi ideali e programmatici fondamentali.

  1. Meloni, intanto, diventa sempre più moderata, una sorta di riconversione. Tale linea continuerà a favorire il presidente del Consiglio?

Meloni, linguaggio a parte, era già moderata. Lo è almeno dal 2014, qnche se solo pochi osservatori paiono essersene accorti. Così si scambia per evoluzione di Meloni, quello che è il lento risveglio dei suoi critici.

  1. Cosa ne pensa dei primi passi del governo?

Male fisco, condoni, contante, pensioni. Abbastanza bene quasi tutto il resto, se non altro perché il grosso delle risorse sono convogliate sui ceti deboli. Opportuno il freno ai rave party, sacrosanta la limitazione del bonus cultura ai ragazzi delle famiglie meno abbienti.

  1. Non ritiene che qualche provvedimento di questo esecutivo sembri molto di sinistra?

No, la sinistra non è in grado di accorgersene. Anziché dire, toh ci hanno copiato, bene così, preferisce dire che anche i provvedimenti più di sinistra sono “di destra”, quindi cattivi a priori. E’ il sempiterno cane di Pavlov che possiede i progressisti.

  1. Il reddito di cittadinanza può essere superato?

Deve esserlo, ma in due sensi. Stroncare gli abusi, ma anche raggiungere tanti “veri poveri” che con le regole attuali non riescono ad accedervi.