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A Bonaccini-Schlein-Cuperlo-De Micheli “Perchè non volete dire quel che pensate?”

21 Febbraio 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoPolitica

Cinque giorni fa, in vista delle primarie del 26 febbraio, la Fondazione David Hume e l’Istituto Bruno Leoni hanno lanciato un appello ai candidati alla segreteria del Pd (appello di cui gli entourage dei candidati hanno confermato la ricezione).

Nell’appello (lo trovate qua sotto) si chiedeva loro di usare dieci minuti del loro tempo per rispondere a 18 quesiti politici fondamentali. Se lo avessero fatto, oggi avremmo le idee molto più chiare su che cosa ciascuno di essi pensa, e che cosa lo differenzia dagli altri tre.

Ed ecco le risposte:

Elly Schlein: nessuna risposta

Stefano Bonaccini: nessuna risposta

Gianni Cuperlo: preferisco non rispondere

Paola De Micheli: appena ho tempo vi rispondo (ma finora non ha trovato il tempo)

Che dire? Giudicate voi. Certo, è interessante che, finché possono restare nel vago, i candidati alla segreteria del Pd siano ben felici di parlare, ma appena li si interroga su questioni precise e politicamente sensibili, se ne guardino bene. Sembra quasi preferiscano non scoprire le carte.

E allora, visto che non possiamo sapere che Pd vogliono coloro che si candidano a guidarlo, perché non provate a compilarlo voi il questionario?

Per farlo basta cliccare qua sotto:

https://forms.gle/NWnyp78KwKHUgNmbA

Compilandolo, le vostre risposte (rigorosamente anonime) saranno registrate in un dataset che le raccoglie tutte, come in un sondaggio di opinione.

Dopo le primarie, Fondazione David Hume e Istituto Bruno Leoni renderanno pubblici i risultati del sondaggio.

Federalismo fiscale addio – Intervista a Luca Ricolfi

9 Febbraio 2023 - di fondazioneHume

Politica
  1. Il Sacco del Nord, Federalismo addio. Cosa è cambiato in Italia da quando ha scritto quel testo?

Impossibile dare una riposta rigorosa. Il sacco del Nord, che è una radiografia degli squilibri territoriali, è stato scritto nel 2009, e ha richiesto un anno di lavoro a tempo pieno a me a alle mie collaboratrici. Per aggiornare la radiografia, ci vorrebbe un altro anno di lavoro, che peraltro fotograferebbe la situazione del 2020, stante la lentezza con cui escono i dati necessari. Quindi le rispondo lo stesso, ma avverto che nessuno ha i dati e gli strumenti per dare una risposta circostanziata.

Bene, data la lentezza con cui si modificano gli squilibri territoriali, la cosa più probabile è che poco sia cambiato. Probabilmente, se potessimo aggiornare Il sacco del Nord, ritroveremmo squilibri simili.

1bis. E cioè?

Che il Nord stacca ogni anno un assegno di 50 miliardi (che nel frattempo saranno alquanto lievitati, causa inflazione) a favore delle regioni del Sud, ma anche di alcune regioni inefficienti del Centro e del Nord. E che quell’assegno, oltre a coprire l’eccesso di spesa pubblica corrente del Sud (che è “solo” di 12 miliardi), copre le inefficienze nella erogazione dei servizi (20 miliardi) e il mancato gettito fiscale (18 miliardi), dovuto all’abnorme tasso di evasione della maggior parte delle regioni meridionali.

La vera differenza rispetto al 2010, quando uscì il mio libro, è che mentre allora si poteva temere che la Lega avrebbe tradito il progetto federalista (un dubbio che espressi allora, perché gli indizi c’erano tutti), ora è evidente che alla Lega quel progetto non interessa più. Molti l’hanno dimenticato, ma secondo le promesse di allora, oggettivate nella legge 42 del 2009, il federalismo avrebbe dovuto decollare entro 5, massimo 10 anni. Qualcuno lo ha visto?

Del resto è stato il Parlamento stesso, nel 2019, a certificare che quella legge è rimasta largamente inattuata, nonostante i partiti che l’avevano proposta siano stati quasi sempre al governo.

  1. Ha sempre la stessa idea sull’Autonomia?

Sì e no. Penso, come pensavo allora, che – in teoria – il federalismo fiscale sarebbe un’ottima via per far ripartire la crescita, che in Italia è ferma da quasi 30 anni. Ma, a differenza di allora, penso che ormai sia troppo tardi e che i politici non abbiano la minima intenzione di attuare quel progetto. Il che si vede anche dalla domanda che lei mi ha posto: come mai mi parla di autonomia, dopo trent’anni di discorsi sul federalismo fiscale?

La ragione è semplice: il ceto politico attuale del federalismo fiscale se ne infischia, perché comporterebbe un costoso (elettoralmente) richiamo alla responsabilità dei territori, e preferisce assecondare la spinta del ceto politico locale ad espandere la propria sfera di intervento. E, di conseguenza, le proprie possibilità di acquistare consenso con la spesa pubblica e l’aumento dei propri poteri regolativi e autorizzativi. Un progetto politico che, giustamente, viene portato avanti in nome dell’autonomia, senza alcun riferimento al federalismo fiscale.

  1. La riforma proposta dal ministro Calderoli può funzionare?

Certo. Dal momento che non stabilisce nulla, nessuno può affermare che non funzionerà.

  1. Condivide le proteste dei governatori del Sud?

Le capisco, più che condividerle. È possibile che, nell’attuazione dell’Autonomia, i territori che più dissipano risorse e meno contribuiscano al gettito fiscale, possano essere costretti a subire qualche ridimensionamento. Ma secondo me lo scenario più verosimile è quello di un ulteriore aumento della spesa pubblica in tutti i territori, compresi quelli che dovrebbero ridurla.

  1. Sono legate probabilmente al fatto che ci sono Regioni che in questo particolare momento hanno maggiori difficoltà economiche rispetto ad altre?

No, sono legate alla consapevolezza che – con l’Autonomia – il paradigma vittimario con cui il Mezzogiorno ha finora negoziato il proprio rapporto con lo Stato centrale potrebbe subire un’incrinatura, perché la gestione della riscossione e dei servizi pubblici del Sud è indifendibile. E, prima o poi, quel paradigma potrebbe dover competere con il paradigma responsabilista di Dambisa Moyo, la coraggiosa scrittrice zambiana che – giusto nel 2009, anno in cui in Italia veniva approvata la legge 42 sul federalismo fiscale – pubblicava Dead Aid, il suo libro più famoso (La carità che uccide. Come gli aiuti dell’Occidente stanno devastando il Terzo mondo).

Una delle lezioni di quel libro è che gli aiuti ai territori sotto-sviluppati, se prolungati, privi di controllo e meccanismi di mercato, possono favorire la nascita di una classe politica inefficiente e priva di senso di responsabilità, con il risultato di bloccare lo sviluppo anziché promuoverlo.

  1. Si è parlato anche di macroregioni. Potrebbe essere la strada da seguire?

E’ la vecchia e saggia idea della Fondazione Agnelli, ma il ceto politico locale si opporrà con tutte le sue forze: macroregioni significa anche riduzione dei poteri dell’immensa rete di vassalli, valvassori e valvassini che si spartiscono il potere locale. Contrariamente a quanto sembra credere Bonaccini (e con lui tanti altri governatori e sindaci) gli amministratori locali – anche quando governano bene – sono una delle forze più ostili alla razionalizzazione e semplificazione della Pubblica Amministrazione.

  1. Altro tema il presidenzialismo. L’Italia è matura?

La maturità degli italiani è fuori discussione. E’ il ceto politico che non è maturo per varare una riforma delle regole del gioco senza mettere in primo piano gli interessi egoistici delle forze politiche coinvolte.

  1. Cambiando argomento, oggi tornano gli anarchici. Cosa sta succedendo nel Paese?

Sta succedendo che, come sempre, un piccolo problema gestibile (un terrorista che fa lo sciopero della fame) è stato trasformato in un grande problema ingestibile per la miopia delle forze politiche. E qui mi riferisco sia al duo Delmastro-Donzelli, sia al quartetto Orlando-Serracchiani-Verini-Lai.

  1. Considerando la crisi attuale, possiamo e dobbiamo temere qualcosa, considerando che più di qualcuno non condivide la linea troppo atlantista del governo, secondo i più assoggettata agli Stati Uniti?

Certo che dobbiamo temere qualcosa! Dobbiamo temere la terza guerra mondiale, che la classe politica occidentale sta rendendo ogni giorno più probabile. E questo non perché mandiamo armi all’Ucraina, ma perché – come ha spiegato nei giorni scorsi il generale Fabio Mini – non abbiamo alcuna ipotesi seria su come far terminare questa guerra. Non esiste un end state, un obiettivo finale che si cerca di raggiungere. Dire che l’unica soluzione è la resa della Russia, con il ritiro integrale dall’Ucraina, significa preferire il rischio di una guerra nucleare piuttosto che accettare un compromesso sui territori occupati. E il fatto che l’opinione pubblica sia poco preoccupata per la guerra è pericolosissimo, perché favorisce e alimenta l’irresponsabilità dei governanti. Zelensky a Sanremo è il simbolo perfetto di tutto ciò: l’orchestra europea continua a suonare mentre il Titanic affonda.

 

[intervista al quotidiano L’identità, 7 febbraio 2023]

Follemente corretto (14) – Guai ai normali

26 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

C’è stato un tempo in cui la gente non era malata di suscettibilità. In quel tempo le parole non erano radioattive. Dicevi invalido, magari per cedergli il posto sul tram, e nessuno aveva niente da ridire. Dicevi infermo, menomato, storpio, e nessuno pensava che tu volessi offendere. Ora non più. Oggi innumerevoli legislatori del linguaggio, spesso in disaccordo fra loro, ci spiegano quali termini usare per parlare con rispetto di chi ha qualche inconveniente fisico o mentale più o meno grave e più o meno permanente. La lista delle parole proibite si allunga ogni giorno, rendendo via via obsoleti gli eufemismi che in un tempo precedente erano apparsi accettabili. Sotto la tagliola cadono parole come handicappato, portatore di handicap, disabile, affetto da disabilità, diversamente abile. Per alcuni, persino invalido non va bene, e l’unico termine accettabile è “persona con disabilità”.

Fin qui tutto chiaro. Lo sappiamo, o meglio lo sanno quelli che lavorano con le parole, o hanno tempo per queste cose. Meno nota è l’altra faccia della medaglia: anche la parola ‘normale’ è fuori legge. Non puoi dire che una persona è normale, perché – così facendo – sottintendi che esistano delle persone anormali, che potrebbero offendersi. E l’interdetto si estende alle cose: anche “shampoo per capelli normali” sarebbe potenzialmente offensivo (per chi compra uno shampoo speciale), quindi da evitare.

Il discredito per chi è normale, in realtà, viene da lontano. Risale agli anni ’60 e ’70, quando fra i contestatori e fra gli intellettuali più impegnati si diffuse l’idea, alquanto romantica, che la devianza – dai matti agli hippy, dai detenuti ai capelloni – altro non fosse che ribellione alle regole del sistema, ben rappresentato dalle istituzioni totali e dalle persone “normali”, pronte a stigmatizzare come devianza ogni allontanamento dalle regole imposte dalla classe dominante.

Oggi lo stigma funziona a rovescio. A essere stigmatizzato è l’uso della parola normale e dei suoi sinonimi per significare che qualcuno è privo di disabilità.

  • normali non si può usare “perché implica che gli altri sono anormali”
  • normodotati non si può usare “perché implica che gli altri sono ipodotati” (chissà mai perché ipodotati, e non iperdotati)
  • abili non si può usare “perché implica che gli altri sono inabili”.

E allora, che facciamo?

Un consiglio è di scrivere la parola normodotati fra virgolette, o palare di cosiddetti “normodotati”, allo scopo di “evidenziare che la parola è semanticamente scorretta”.

Ma questa soluzione non è completamente soddisfacente. Meglio usare l’espressione temporaneamente “normodotati”, “per ricordare che una disabilità non è mai congenita ma è conseguente a una malformazione, una malattia o un infortunio”.

Abbiamo capito bene?

Se sei normale, nel senso che sei privo di disabilità, devi definirti temporaneamente“normodotato” perché una disgrazia potrebbe capitare anche a te?

Pare di sì. Ma niente paura, se siete superstiziosi potete fare gli scongiuri, se invece siete solo istruiti potete dire “sono normale” in  inglese: I am TAB (Temporarily Able-Bodied), sono temporaneamente equipaggiato con un corpo abile.

Che fa fine e non offende nessuno.

 

Follemente corretto (13) – Parentesi e intimidazioni

24 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

La parola ‘donna’ sta diventando incandescente. Se la usi, rischi di bruciarti. Specie se sei una donna. Ne sa qualcosa Joanne Rowling, l’autrice di Harry Potter, che nel 2020 si beccò ogni sorta di improperio (a partire da TERF: Trans Exclusionary Radical Feminist) per aver ironizzato sull’espressione “persone che hanno le mestruazioni”, usata per non pronunciare la parola ‘donna’, che agli occhi degli attivisti trans sarebbe escludente.

Da allora, l’uso della parola donna è diventato sempre più controverso: una parte del mondo femminista lo rivendica, ed esige che la parola sia riservata a chi è biologicamente di sesso femminile (e tale rimane), mentre una parte del mondo LGBT+ lo contesta, e pretende che si usino espressioni – come persona con le mestruazioni – che possono riferirsi anche a transessuali FtM (da femmina a maschio), che non si riconoscono come donne.

Ma non basta. Ultimamente, il termine donna è diventato controverso anche perché una parte del mondo LGBT+ contesta il cosiddetto binarismo, ossia la distinzione stessa fra maschi e femmine. Secondo questo modo di vedere, può risultare impossibile riconoscersi univocamente in uno dei due generi, e comunque gli “stati di genere” possibili, ossia i modi di autopercepirsi, sarebbero infiniti e cangianti nel tempo. Di qui la continua ricerca, nella pubblicità, sui media, nelle grandi corporation, di formulazioni inclusive, capaci di venire incontro alle suscettibilità di chiunque (salvo irritare chi non avesse speciali suscettibilità).

Poca attenzione, finora, è stata rivolta alle conseguenze che questa ossessiva vigilanza sugli usi della parola donna produce sulla qualità della scrittura delle donne stesse. Terrorizzate dalle guardie rosse della lingua corretta, timorose di incorrere in anatemi e scomuniche come quelle che hanno colpito la più celebre Rowling, molte giornaliste, studiose e scrittrici stanno perdendo la capacità di esporre limpidamente il loro pensiero.

Ed ecco che, in un articolo che parla d’altro, ci si sente in dovere di spiegare perché non si usa la schwa, che pure sarebbe una cosa bellissima e giustissima. Oppure ci si scusa di usare la parola donne, e si perde tempo con penose parentesi giustificatorie, piene di banalità.

Esempi?

Se ne potrebbero fare diversi, ma ne basta uno a illustrare il meccanismo.

Ecco tre parentesi, tutte inserite nel medesimo articolo di giornale, firmato da una nota studiosa di filosofia:

Vorrei tanto che le donne della mia generazione (anche se dire “le donne” non mi piace, è un’espressione che non ha senso, non esiste alcuna entità omogenea capace di riassumere le mille sfumature dell’esistenza femminile) bla-bla…

E se le donne (sebbene ritenga opportuno finirla con quest’opposizione binaria fra gli uomini e le donne) bla-bla…

Noi donne (anche se la genericità del temine non mi piace) bla bla…

Che cosa aggiungono le parentesi? La spaventosa banalità secondo cui qualsiasi termine generale – non solo le donne, ma anche gli uomini, i giovani, gli operai – non può che riferirsi a uno spettro di condizioni molto diverse? Qualcuno non lo sapeva già? E poi, perché ripetere tre volte che sì, uso l’espressione ‘le donne’, ma in realtà non la vorrei usare proprio?

La ragione è semplice. Si chiama “mettere le mani avanti”. Proteggersi dal rischio che una esponente del mondo LGBT+, ancora più follemente corretta dell’autrice dell’articolo, possa chiamarla sul banco degli imputati, chiedendole conto dell’uso troppo disinvolto della parola donne. Dietro le inutili parentesi ci sono due cose soltanto: il potere intimidatorio dei guardiani della lingua, la mancanza di libertà di chi scrive.

Ironia della sorte: il titolo dell’articolo è “meglio donne libere che donne di potere”.

Follemente corretto (12) – Scienza e confusamente corretto

19 Gennaio 2023 - di fondazioneHume

In primo pianoSocietà

Fino a qualche anno fa i molestatori del linguaggio naturale avevano le idee abbastanza chiare: certe parole non si possono usare, sono offensive, vanno sostituite con parole più neutre, meno contundenti. Al posto di cieco, sordo, negro, bidello, donna di servizio, bisogna dire non vedente, non udente, nero, collaboratore scolastico, colf.

Oggi le cose stanno cambiando. Il dubbio comincia a serpeggiare, e i riformatori del linguaggio si dividono in diverse scuole di pensiero. Alcuni mantengono i vecchi consigli, e si limitano a discettare su quale sia l’eufemismo migliore. Handicappato, portatore di handicap, disabile, diversamente abile? Non vedente o ipovedente?

Altri invece rifiutano gli eufemismi, e propongono una sorta di ritorno alle origini: anziché dire non vedente, espressione che sottolinea una mancanza, diciamo cieco, perché essere ciechi è una caratteristica della persona, non una privazione di qualcosa. Anziché dire non udente, torniamo a dire sordo.

Altri, salomonicamente, dicono che non c’è una regola, e che bisogna chiedere ai diretti interessati come preferiscono essere chiamati (come se questo non fosse già uno stigma).

Ma il massimo della confusione si è raggiunto con la parola grasso. Per anni i paladini del linguaggio corretto si sono impegnati nella caccia agli eufemismi, soprattutto per designare le donne grasse. Come parlare di una donna grassa? C’è un modo simpatico, cortese, gentile di dire che una persona è sovrappeso? Cicciottella è offensivo? E formosa, tonda, morbida sono accettabili?

Poi è successo qualcosa. Anziché invitare a non usare la parola grasso (in inglese: fat) si è cominciato a suggerire di usarla, quella benedetta parola, ma a farlo in una accezione puramente descrittiva, come accade quando di una persona diciamo che è alta, bionda o ha lentiggini. Qualcuno ha dottamente parlato di di “risemantizzazione”: dobbiamo correggere la connotazione (negativa) della parola ‘grasso’, e imparare a usarla in modo neutro, come la parola ‘magro’. Un po’ come era successo con la parola ‘cieco’, prima squalificata e poi riabilitata.

Tutto finito, dunque?

Neanche per sogno. Specie in America, si è andati ben oltre. Sono nati (o meglio hanno ricevuto nuovo impulso) movimenti che si battono per l’accettazione della grassezza (fat acceptance movement), o ne esaltano la bellezza (fat is beautyful movement), o la promuovono a caratteristica di cui essere fieri (fat pride movement).

Ma a differenza di quanto accaduto con parole come cieco e sordo, la campagna per la rivalutazione della parola grasso è ricorsa all’aiuto della scienza medica. Secondo alcune ricerche, esistono forti indizi che l’essere  al di sopra del presunto “peso giusto” (calcolato in funzione dell’altezza, secondo il BMI: Body Mass Index) non solo non sia dannoso alla salute, ma possa avere un valore protettivo verso alcune malattie, comprese quelle di natura cardiaca. Insomma: meglio essere grassi che normopeso. Questo risultato, denominato “paradosso dell’obeso”, da alcuni anni sta diventando il cavallo di battaglia dei movimenti per la difesa dei grassi, e – nella misura in cui gli esperti sono divisi sulla sua solidità – sta mettendo in seria difficoltà medici, nutrizionisti, nonché l’enorme business delle cure dimagranti.

Così la lotta per il governo della lingua si arricchisce di un capitolo nuovo: per alcuni si deve sostituire la parola grasso con un eufemismo, per altri dobbiamo imparare a dire grasso con rispetto, per altri la grassezza va lodata e incoraggiata, non solo nelle parole, ma anche nei fatti. Grazie ai dubbi della scienza, il follemente corretto sta trapassando in confusamente corretto.

Come direbbe il Presidente Mao, “grande è la confusione sotto il cielo: la situazione è eccellente”.

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