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Aiutarli a casa loro? – Perché non basta un piano Mattei

25 Settembre 2023 - di Luca Ricolfi

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Chi sono i migranti che sbarcano sulle nostre coste?

Nessuno lo sa con ragionevole precisione, perché su tutto si fanno sondaggi “scientifici” tranne che su chi arriva in Italia dal mare. Certo, di norma sappiamo il paese di provenienza, il sesso, l’età (o meglio l’età dichiarata), ma su tutto il resto siamo costretti a barcamenarci con frammenti di informazione, o a lavorare di fantasia.

È così che si è formata, in parte dell’opinione pubblica, nei media, nel mondo della Chiesa, fra gli scrittori, gli studiosi, gli artisti, un’immagine stereotipata dei migranti, dipinti come disperati, poveri, perseguitati, “costretti a lasciare la propria terra a causa di conflitti armati, di attacchi terroristici, di carestie, di regimi oppressivi” (parole di Papa Francesco).

Va subito detto che una parte dei migranti sono proprio così. Ed è per questo che esiste il diritto d’asilo, e una frazione dei migranti, dopo aver fatto domanda, ottiene lo status di rifugiato, o altre forme di protezione (come quella sussidiaria e quella umanitaria). Ma la domanda è: quanti sono i migranti che corrispondono allo stereotipo?

I dati frammentari di cui disponiamo suggeriscono che siano una minoranza. Vediamo perché. Innanzitutto, le domande di asilo accettate: il loro numero varia considerevolmente nel tempo, ma non ha mai raggiunto il 20%, e in molti anni è stato inferiore al 10%. Anche includendo le forme di protezione più deboli, come quella sussidiaria e quella umanitaria, si resta abbondantemente sotto il 50%. Oggi oltre il 60% dei migranti non ha diritto ad alcuna forma di protezione, e cade quindi nello status di irregolare.

Si potrebbe ipotizzare, nondimeno, che a migrare siano soprattutto gli ultimi, sospinti dalla povertà e dalla fame. Ma anche questo è incompatibile con i dati. Che mostrano invece come una frazione considerevole dei migranti sia costituita da persone che, nel loro paese, appartenevano al ceto medio. Per rendersene conto, basta confrontare il livello medio di istruzione degli immigrati approdati in Italia con quello, enormemente più basso, dei loro connazionali nei paesi di provenienza. Oppure riflettere sul costo del viaggio. Spesso ce ne dimentichiamo, ma il “biglietto di viaggio” che i trafficanti di uomini fanno pagare ai migranti (3-4-5 mila euro) è certo alto per i nostri parametri occidentali, ma è mostruosamente esoso per chi vive in paesi il cui Pil procapite è 5, 10, 20 volte più basso del nostro: chiedere 5 mila euro a un cittadino tunisino, è come chiederne 50 mila a un italiano. Inevitabile porsi la domanda: con questi prezzi, come si fa a pensare che a migrare siano soprattutto i più poveri e disperati?

Il fatto che una parte considerevole dei migranti siano migranti economici, che nei loro paesi appartengono al ceto medio e partono perché aspirano a una vita più libera e meno disagiata, è importante per due motivi, entrambi inquietanti. Il primo è che così le migrazioni tendono a depauperare l’Africa delle sue risorse umane migliori, un po’ come succede all’Italia con il flusso di laureati e diplomati verso paesi più ricchi e meritocratici. Il rischio è che iniziative pur lodevoli, come il piano Mattei, stentino a decollare perché i migliori e più intraprendenti sono già andati via, mentre quelli rimasti continuano a sognare il trasferimento in Europa, quali che siano i progressi – inevitabilmente lenti – delle società di origine.

Il secondo motivo di preoccupazione ha a che fare con il sistema di incentivi alla migrazione. Se è vero che il motore principale del flusso di migranti verso l’Europa  non è la spinta della povertà (del paese d’origine) ma l’attrazione per la ricchezza (del paese d’arrivo), allora non possiamo non vedere che la domanda di ingresso in Europa sarà sempre più elevata, molto più elevata, della disponibilità di posti. E che l’apertura di canali regolari, con conseguente crollo del biglietto di ingresso in Europa, non potrà che ampliare a dismisura lo squilibrio fra domanda e offerta.

Di qui una conclusione amara, ma difficile da evitare: il piano Mattei è un’ottima cosa, ma pensare che “aiutarli a casa loro” possa essere la soluzione è una ingenuità che l’Europa non si può permettere. Forse è giunto il momento di prenderne atto: esistono anche problemi che non hanno soluzione. Conciliare il diritto di chiunque di cambiare paese è incompatibile con il diritto dei popoli di scegliere chi accogliere. Per questo, chiunque governi e qualsiasi cosa faccia, sentiremo sempre che qualcosa di importante è andato perduto.

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Luca Ricolfi
Luca Ricolfi
Torino, 04 maggio 1950 Sociologo, insegna Analisi dei dati presso l'Università di Torino.
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