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Corea del Sud: il metodo del tracciamento elettronico

3 Giugno 2021 - di Silvia Milone

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In questo articolo continuo l’analisi dei diversi metodi di prevenzione del Covid messi in atto dai paesi del Pacifico, che era iniziata con quello di Taiwan, basato principalmente sulla chiusura tempestiva delle frontiere.

Oggi prenderò in esame quello della Corea del Sud, basato principalmente sul tracciamento elettronico dei contagi. Tale metodo è anche l’unico di cui si sia talvolta parlato anche da noi, ma senza entrare quasi mai nei dettagli, come invece cercherò di fare qui.

La Corea del Sud è uno dei paesi che è riuscito a contenere maggiormente la diffusione del Coronavirus. Ad oggi, su 51,71 milioni di abitanti, sono 134.117 i casi accertati, mentre il numero di morti si attesta a 1.920 dall’inizio della pandemia, con un tasso di letalità rilevato (CFR: case fatality ratio) dell’1,4%, un numero decisamente basso rispetto a quello rilevato in Occidente. Ciò non significa che in Corea il virus sia meno letale che da noi, ma piuttosto che in quel paese i contagi che sfuggono al rilevamento sono davvero molto pochi: infatti, il tasso di letalità rilevato si avvicina molto a quello che, secondo le stime fatte dagli scienziati, dovrebbe essere il tasso reale (non superiore all’1%), il cosiddetto IFR, o infection fatality ratio.

Il primo focolaio del contagio si è sviluppato nella città di Daegu, situata a 240 km dalla capitale Seul, per poi propagarsi in tutto il paese. Ciononostante, il numero totale di contagi è rimasto sempre molto basso, grazie alla pronta azione del governo, con a capo il presidente Moon Jae-In, che si è messo subito all’opera per contenerlo evitando un blocco completo degli spostamenti, permettendo alle persone di continuare a recarsi regolarmente al lavoro e riducendo così al minimo le ripercussioni economiche.

Anzitutto, il governo ha deciso di veicolare in modo del tutto trasparente le informazioni riguardanti i pazienti infetti. Siti web, mappe interattive e applicazioni per i cellulari rendono disponibili in tempo reale tutti i dati riguardanti gli spostamenti che i cittadini infetti hanno compiuto prima di essere diagnosticati, il che permette di informare tramite sms tutti i cittadini interessati ogni volta che si verificano dei casi nella zona in cui vivono. Una lista dettagliata dei movimenti delle persone infette permette di risalire a ristoranti e negozi che hanno frequentato, i quali vengono poi disinfettati e chiusi temporaneamente. In questo modo le altre persone possono sapere se devono sottoporsi a quarantena preventiva e fare il test.

Il rapido accesso da parte del governo alle registrazioni delle telecamere di videosorveglianza e ai dati delle carte di credito e dei telefoni ha permesso di realizzare un sistema di controllo di questo tipo. Inoltre, è stata fondamentale per il contenimento dell’epidemia la creazione di un sistema di test veloci ed efficaci; in tutto il paese sono stati infatti dislocati ben 118 hub di analisi che sono in grado di comunicare gli esiti dei tamponi via sms entro 24 ore. Le autorità hanno anche messo in atto una massiccia campagna per favorire il distanziamento sociale, lasciando però gli esercizi aperti e permettendo ai cittadini di scegliere volontariamente se frequentarli o meno.

Il successo del protocollo adottato dalla Corea del Sud è certamente in gran parte dovuto alla precedente esperienza avuta con l’epidemia di Mers del 2015, che registrò 186 casi e 38 decessi. A epidemia terminata, la legislatura coreana definì infatti una strategia di tracciamento dei contatti che prevede l’individuazione delle persone infette e la relativa quarantena di tutti quelli che hanno interagito con loro. Gli emendamenti autorizzano perciò le autorità sanitarie all’utilizzo dei big data per ricostruire abitudini e spostamenti delle persone potenzialmente esposte al contagio.

I risultati ottenuti dimostrano inequivocabilmente che le misure introdotte, almeno finora, sono riuscite a tenere molto basso il numero dei casi. Ciononostante, il governo è sempre stato molto attento a intervenire in modo tanto rapido quanto deciso al minimo accenno della nascita di nuovi focolai, attuando delle restrizioni mirate nei quartieri interessati. Significativo è il caso avvenuto a maggio 2020, quando un ventinovenne è risultato positivo dopo aver frequentato diversi locali notturni di Seul nel quartiere di Itaewon. L’allarme è scattato quando da zero positivi al giorno in poco tempo si è passati a 30. Una volta individuato il diffusore iniziale, il governo sudcoreano è riuscito a contenere i contagi rintracciando un numero enorme di persone che avevano avuto contatti con i clienti dei locali e individuando circa la metà dei visitatori dell’intero quartiere: in tre settimane sono stati testati 46 mila contatti e rintracciate 160 persone infette.

Questo è stato possibile anche perché i clienti dei locali di Seul sono obbligati a lasciare i propri riferimenti prima di accedere a ristoranti e bar. Quando le autorità hanno identificato l’area interessata dal focolaio hanno predisposto la chiusura immediata di tutti i bar e le discoteche della città, mentre il governo ha inviato un sms a tutti i cittadini, chiedendo a chiunque si fosse trovato in quella zona in un determinata finestra temporale di sottoporsi al tampone anche in assenza di sintomi.

La polizia ha lavorato in sinergia con le società di telecomunicazioni al fine di utilizzare i dati dei cellulari e individuare chi si trovava nel quartiere quel fine settimana. Localizzazioni GPS, registrazioni di carte di credito e videosorveglianza sono state fondamentali per eseguire il tracciamento. Infine, una volta raccolte tutte le informazioni, il governo le ha pubblicate in forma anonima su un sito apposito dove tutti possono verificare se sono stati a rischio contagio.

Una speciale app di tracciamento chiamata Corona 100m provvede inoltre ad inviare alle persone degli avvisi di emergenza quando raggiungono i 100 metri di distanza da un luogo visitato di recente da una persona affetta da coronavirus. Il sistema consiglia agli utenti dei percorsi alternativi sicuri per recarsi e tornare dal lavoro in modo da non effettuare lo stesso tragitto fatto in precedenza dai soggetti infetti. In questo modo quella che poteva essere la seconda ondata è stata bloccata nel giro di poche settimane.

Il contact tracing digitale è stato nevralgico per combattere il virus, in quanto presenta numerosi vantaggi, come ad esempio l’impiego degli operatori sanitari solo laddove sono strettamente necessari e l’uso mirato dei tamponi (non per nulla, la Corea del Sud è tra i paesi che ne hanno fatti di meno al mondo: vedi Paolo Musso), con conseguente abbattimento dei costi nonostante un tracciamento molto più puntuale.

In molti altri paesi questo tipo di raccolta dati è sembrata una violazione della privacy, ma in Sud Corea ha ricevuto grandi consensi. Secondo un sondaggio condotto dalla Graduate School of Public Health della Seul National University, il 78% dei 1.000 intervistati è risultato favorevole all’allentamento della tutela dei propri diritti al fine di contenere il coronavirus. Cionondimeno, è innegabile che la violazione della privacy risulta sempre più invasiva e, nonostante l’anonimato, in pratica non è difficile riconoscere i positivi segnalati. Per esempio, nel caso di Itaewon il giovane che aveva dato origine al contagio era stato subito identificato dai social network.

Alla base di queste scelte vi è un approccio utilitaristico volto a giustificare le limitazioni alle libertà personali in virtù di esigenze superiori come la salvaguardia della salute pubblica, tant’è vero che il monitoraggio pubblico nelle civiltà orientali è una costante indipendentemente dalla fase emergenziale e dal sistema di contact tracing. Lo screening dei contatti è stato già utilizzato in passato con malattie infettive come il morbillo o l’HIV, divenendo uno strumento fondamentale di prevenzione e controllo.

Ciò è reso possibile da un contesto socioculturale totalmente differente da quello europeo, in cui l’importanza della difesa della sfera privata è poco percepita dalla popolazione. Le realtà orientali tendono a privilegiare misure coercitive e restrittive di controllo basate su sistemi informatici e applicazioni che possono prescindere dall’avere il consenso della popolazione. Di fatto, sia in Corea del Sud che in Cina gli strumenti tecnologici sono stati utilizzati in modo massiccio e invasivo, con la conseguente diminuzione della sfera di riservatezza dei singoli, nonostante la prima sia una democrazia e la seconda una dittatura, il che è indicativo di una mentalità di base comune, che precede e travalica le differenze politiche.

Ad ogni modo è opportuno ricordare che la Corte Costituzionale sudcoreana in base al cosiddetto Fingerprint Case ha riconosciuto a gennaio 2020 ai data privacy rights lo status di diritti di rango costituzionale ai sensi degli articoli 10 e 17 della Costituzione, equiparando le impronte digitali a informazioni strettamente personali il cui utilizzo rappresenta una restrizione del right to information self determination. Finora, però, ciò non sembra avere influito in alcun modo sulla gestione della pandemia.

Anche in Europa durante la prima ondata della pandemia la paura ha prevalso sulla difesa della privacy. I cittadini si sono rivelati accondiscendenti verso le restrizioni a molte libertà fondamentali come quella di circolazione, di culto, di impresa, ecc. Nei paesi dell’Unione Europea si è scelto di appiattire la curva epidemica mediante la limitazione delle attività affiancato all’utilizzo di tecnologie con le quali monitorare i soggetti potenzialmente infetti.

Una rete di autorità nazionali che opera in campo della digital health and care, l’eHealth Network, ha sviluppato un pacchetto di strumenti chiamato Common EU Toolbox of Practical Measures per l’uso di applicazioni mobili e di dati sulla mobilità delle popolazioni su base volontaria. Tuttavia, tali applicazioni sono state studiate con l’approvazione dell’autorità sanitaria nazionale, nel rispetto della vita privata e della tutela dei dati personali e a condizione che i dati venissero distrutti nel momento in cui non fossero più stati necessari per contrastare l’epidemia.

L’approccio europeo si basa perciò sulla minimizzazione della raccolta dei dati personali. Quelli utilizzati sono i soli dati di prossimità, raccolti con il ricorso alla tecnologia Bluetooth a bassa energia, che possono poi essere conservati o sullo stesso dispositivo della persona interessata (decentralised processing), sia sul server dell’autorità sanitaria pubblica (backend server solution). Al modello decentralizzato hanno aderito stati come l’Italia con l’app Immuni, la Germania con Corona Warn Up, la Svizzera con Swiss Covid e l’Austria con Stop Corona. Alcuni paesi come: Stati Uniti, Estonia, Finlandia e Portogallo hanno preferito invece avvalersi di un codice fornito da Apple e Google con una tecnologia basata sull’exposer notification: un codice identificativo anonimo viene scambiato tramite Bluetooth con un altro utente nelle vicinanze e se uno dei due risulta essere positivo al Covid-19 una notifica viene inviata a tutti quelli che sono entrati in contatto con loro.

Indipendentemente dal sistema prescelto, comunque, il tracciamento digitale si fondava sempre sull’adesione volontaria dei cittadini, che, contrariamente alle aspettative dei governi, è stata deludente, visto che il numero dei download si è attestato su percentuali modeste (ad oggi Immuni è al 19,6%, ben lontano dal milione di utenti raggiunto nei primi dieci giorni di vita dell’app coreana). Ma soprattutto sono stati pochissimi quelli che l’hanno utilizzata realmente (Immuni ha scoperto in tutto poco più di 5000 contagi: quanti fino a pochi giorni fa se ne verificavano in 6 ore), anche perché c’era la percezione diffusa (e purtroppo esatta) che il sistema non fosse affiancato da un’organizzazione capace di eseguire rapidamente i tamponi, senza la quale il tracciamento diventa inutile.

Ad agosto 2020, un’indagine pubblicata su Nature ha cercato di far luce sull’atteggiamento nei confronti del contact tracing in 19 paesi. È emerso che solo i tre quarti degli intervistati, quando positivi, hanno fornito informazioni complete sui contatti avvenuti nei giorni precedenti. Secondo il sociologo Robert Groves, ex direttore dell’US Census Bureau: “la fiducia del pubblico in tutti i tipi di istituzioni sta diminuendo” specialmente nelle grandi aree urbane. Mary Basset, ricercatrice di sanità pubblica presso la Harvard University di Cambridge, nel Massachusetts sembra non esserne sorpresa in quanto: “alcune comunità che sono state più colpite da COVID-19 hanno una sfiducia di vecchia data nei confronti delle autorità sanitarie pubbliche”. Il modello orientale, con la Corea del Sud in testa, rappresenta dunque un banco di prova sul quale misurare i termini del rapporto tra pubblico e privato e tra la tutela dell’anonimato e gli interessi della collettività in difesa della salute. In virtù dei risultati ottenuti dalla Corea del Sud non si può fare a meno di interrogarsi se non valga la pena rinunciare almeno in parte alle proprie libertà in favore del bene comune, ma resta il dubbio se un tracciamento massiccio simile a questo potrebbe realmente essere impiegato in Europa, dove le imposizioni sono da sempre mal tollerate.

 


SITOGRAFIA

https://www.korea.net
https://www.mofa.go.kr/eng/wpge/m_5810/contents.do
http://english.seoul.go.kr
http://ncov.mohw.go.kr/en/
https://www.ilgiorno.it/esteri/covid-corea-sud-così-sconfitto-il-virus-1.6249239
https://www.ilsole24ore.com/art/forniture-chip-intesa-usa-e-sud-corea-AExtEHL
http://www.pipc.go.kr/cmt/main/english.do#
https://www.saluteinternazionale.info/2021/01/covid-19-italia-vs-corea-del-sud/

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Silvia Milone
Silvia Milone
Tradate (VA), 26/07/1981. Giornalista del quotidiano La Prealpina, dottoranda di ricerca - dipartimento diritto e scienze umane presso l’Università degli Studi dell’Insubria, Vice Presidente dell’associazione Alumni Insubria e consulente aziendale in ambito comunicazione e marketing.
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