La lettera di Conte all’Unione Europea
EconomiaPoliticaBene sul 2019, rischi sul 2020
La sensazione è che l’Italia non voglia lo scontro, e che alla fine la procedura di infrazione non partirà. Questo, in estrema sintesi, è quel che ho ricavato da una attenta lettura della lettera che, ieri, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha indirizzato agli altri paesi Europei.
Una lettera inconsuetamente lunga, che colpisce per il suo tono pacato e tutto sommato – almeno nella forma – ossequioso nei confronti delle regole europee: “non intendiamo sottrarci a tali vincoli [le regole europee], né intendiamo reclamare deroghe o concessioni rispetto a prescrizioni che, fintantoché non saranno modificate secondo le ordinarie procedure previste dai Trattati, sono in vigore ed è giusto che siano tenute in conto dai governi di tutti gli Stati membri”.
Più ragionevole di così…
Altrettanto rassicurante, nella lettera, è il riferimento allo stato dei conti pubblici del 2019, con la previsione di un deficit al 2.1% (poco più del 2.04% concordato), e significativamente inferiore al 2.5% previsto e temuto dalla Commissione Europea. E’ verosimile che, alla fine, il deficit effettivo si situi a metà strada, magari al 2.2 o al 2.3%, ma resta il fatto che, per trovare un deficit più basso di quello del biennio 2018-2019 bisogna risalire a 10 anni fa, ossia al 2007, l’ultimo anno di crescita prima della lunga crisi scoppiata nel 2009. Insomma: è vero che, con il debito che ci ritroviamo, sarebbe meglio puntare su un deficit ancora più basso, ma non si può non vedere che – per adesso – i conti pubblici di Tria sono leggermente migliori di quelli di Padoan.
Detto questo, tuttavia, la lettera di Conte faremmo ben a leggerla e meditarla tutta. In essa, infatti, il nostro governo si esercita non solo in una difesa dei nostri conti pubblici (abbastanza convincente per il 2019, molto fumosa sul 2020), ma anche in un tentativo di spiegare all’Europa dove sbaglia. L’idea di fondo è che la politica europea sia troppo attenta all’equilibrio dei conti pubblici, e troppo poco sensibile al dramma della disoccupazione: se oggi il continente è entrato in una fase di “inesorabile declino” – sembra suggerire la lettera – è perché le politiche di austerità avrebbero rallentato la crescita e alimentato la disoccupazione.
Ma le cose sono andate così?
Penso proprio di no. Intanto bisogna dire che, almeno in Italia, una vera politica di austerità negli ultimi 12 anni non c’è mai stata. Austerità, in politica economica, significa contenimento del debito pubblico attraverso maggiori tasse e/o minori spese, ma in Italia il debito non è affatto diminuito, né in rapporto al Pil né, tantomeno, in assoluto. Il fatto è che il termine austerità, a livello popolare (e a quanto pare anche da parte di chi si proclama “avvocato del popolo”) viene usato come sinonimo di minori consumi, sacrifici, “tirare la cinghia”, tutti fenomeni che effettivamente possono presentarsi come conseguenze del tentativo di risanare i conti pubblici, ma possono benissimo anche stare per conto proprio. Che è precisamente quel che è successo in Italia negli ultimi 10 anni: abbiamo dovuto ridurre i consumi e l’occupazione, ma non perché abbiamo risanato i conti pubblici. L’austerità di questi anni è figlia della fine della crescita, non certo del rigore nei conti pubblici.
Ma, almeno sul primato della lotta al disoccupazione, possiamo dare ragione al premier?
No, e per due ragioni ben precise. La prima è che non è affatto vero che l’Europa è afflitta dal dramma della disoccupazione. E’ vero semmai che in alcuni paesi europei (fra cui l’Italia) il tasso di occupazione è diminuito rispetto al 2007, ma è altrettanto vero che nella maggior parte dei paesi, e segnatamente in Germania, Regno Unito Austria, Svizzera, Belgio, Svezia, è aumentato. Certo, ai paesi in declino può essere di conforto pensare che il declino sia comune e inesorabile, ma si tratta di una credenza incompatibile con i dati.
Ma c’è una seconda ragione che rende traballante il ragionamento della lettera ai governi europei: proprio se si adotta la tesi secondo cui il nostro problema centrale è la disoccupazione diventa difficile difendere la nostra politica economica. Quella politica avrebbe potuto, con le leggi di bilancio 2019 e 2020, puntare decisamente sulla creazione di nuovi posti di lavoro, mediante investimenti pubblici e soprattutto mediante uno shock fiscale a favore dei produttori (imprese e partite IVA). Ha preferito invece bruciare 15 miliardi per varare due provvedimenti di natura assistenziale (reddito di cittadinanza e quota 100), e proprio per questo ora non sa né come evitare l’aumento dell’Iva né come trovare le risorse per ridurre le tasse senza fare altro deficit. Non solo ma, a quanto pare, nella nuova legge di bilancio si appresta a puntare le proprie carte sulla riduzione dell’Irpef, che grava sulle famiglie, piuttosto che sull’Ires e sull’Irap, che gravano sui produttori, ossia sui soli soggetti in grado di creare posti di lavoro veri.
Ecco perché il taglio ragionevole e rassicurante della lettera di Conte non può tranquillizzarci del tutto. Punirci per i conti del 2019 sarebbe ingiustificato, se non altro alla luce dell’indulgenza verso i governi passati. Ma temere che, per il 2020, le nuove promesse siano finanziate in deficit e i mercati tornino ad alzare il tiro su di noi, non è certo fuori luogo.