Il governo della continuità
PoliticaNon passa giorno senza che gli esponenti dell’esecutivo gialloverde sottolineino la sua radicale discontinuità con il passato. Talora cadono nel ridicolo (“stiamo scrivendo la storia”), talora più sobriamente dichiarano che quel che fanno è completamente diverso dal passato, e che il loro è il “governo del cambiamento”. Ma è così?
Per certi versi sì, suppongo. Intanto perché in Italia il clima è cambiato. Con la consueta cecità, intellettuali, scrittori e artisti credono che il nuovo governo susciti razzismo e xenofobia, mentre quel che succede è molto più banale: la gente pensa più o meno quel pensava già prima, con la cruciale differenza che ora si sente autorizzata a dire quel che pensa. E’ esattamente quel che accadde 25 anni fa con la vittoria di Berlusconi, alle Politiche del 1994. Ricordo come fosse ieri un Consiglio di Facoltà in cui il preside, noto storico antifascista, ci gridava “in Italia sta tornando il fascismo”, mentre quel che era successo, anche allora, era ben più banale: le persone di destra, che erano sempre esistite in Italia, ora ritenevano di poterlo dichiarare, senza tema di scomuniche.
Se poi guardiamo al futuro, nessuno può escludere a priori che il governo Salvini-Di Maio venga ricordato come il governo del cambiamento, o in chiave positiva (se la flat tax dovesse far ripartire l’economia), o in chiave negativa (se il dissesto dei conti pubblici dovesse far precipitare l’Italia in una situazione greca, turca, o argentina).
Ma se restiamo all’oggi? Se ci limitiamo ai provvedimenti concreti, a ciò che il governo ha già fatto o si appresta a fare con la prossima legge di bilancio?
Beh, se stiamo alla bassa cucina della politica e dell’economia io vedo più continuità che rottura con i due ultimi governi.
Come il governo Renzi, anche il governo gialloverde ha iniziato annunciando provvedimenti simbolici contro la cosiddetta casta. Allora si vendevano come “lotta agli sprechi” misure di scarsissimo impatto macroeconomico quali la rottamazione delle auto blu e la riduzione del numero di parlamentari, ora si fa lo stesso identico gioco con il taglio dei vitalizi dei parlamentari e la smobilitazione del cosiddetto “Air Force Renzi”, l’aereo presidenziale voluto dal “ragazzo di Rignano”.
Come tutti i governi precedenti, anche questo preferisce lottizzare la Rai piuttosto che mettere sul mercato una o due reti. Per non parlare delle nomine nei posti chiave dello Stato, dove le appartenenze e le fedeltà politiche continuano a giocare un ruolo chiave.
Quanto ai migranti, la riduzione degli sbarchi è in gran parte merito (o demerito, per alcuni) del ministro Minniti e degli organismi internazionali (Unione Europea e Onu), cui si devono gli accordi con la Libia e l’apertura dei primi corridoi umanitari per entrare in Europa legalmente, senza la pericolosa traversata del Mediterraneo.
Ma è sulla politica economica che, almeno a prestar fede alle importanti dichiarazioni del ministro Tria, la continuità è quasi perfetta.
Gli 80 euro di Renzi vengono confermati. Il decreto dignità sposta pochissimo, e quel poco che sposta in parte è in contrasto con la filosofia del Jobs Act (più rigidità sui rinnovi dei contratti), in parte è in sintonia (reintroduzione dei voucher), come si capisce dalle critiche – di segno opposto – che arrivano dalla Cgil e dalla Confindustria. Del resto è stato lo stesso Tommaso Nannicini (economista Pd) a dichiarare che il decreto dignità lascia il Jobs Act “sostanzialmente intatto”. Forse è troppo ottimista (una modesta frenata occupazionale non è da escludere), ma in ogni caso non siamo di fronte a una restaurazione, a un ritorno a prima del Jobs Act.
Come negli anni passati, il cardine della manovra è il disinnesco di qualche clausola di salvaguardia ereditata da governi precedenti (in questo caso l’aumento dell’Iva). E poi ci sono tante piccole cose, più o meno le solite. Un po’ di alleggerimento delle tasse sulle imprese (ieri l’Irap, oggi il regime fiscale delle partite Iva); un rafforzamento del reddito di inclusione (misura caldeggiata dal Pd), prontamente ridenominato “reddito di cittadinanza”; qualche limatura delle spese, sotto al pomposa etichetta della lotta agli sprechi.
Persino sulle grandi opere, Tav e Tap, e sulle grandi crisi aziendali, Ilva e Alitalia, potrebbe esserci continuità più che rottura. E’ possibile che, alla fine, per la maggior parte di esse si assista solo a un ennesimo rallentamento dei processi decisionali, più che a uno stop definitivo, di nuovo in sostanziale continuità con la lentezza dei governi precedenti.
E infine il debito. I governi di Renzi e Gentiloni, nonostante la ripresa, si sono ben guardati dal ridurre il rapporto debito-pil o l’indebitamento netto strutturale, preferendo chiedere ogni anno nuovi margini di flessibilità per poter continuare a spendere in deficit. Esattamente quel che intendono continuare a fare i nuovi governanti, decisi ad andare in Europa a negoziare qualche concessione in materia di spesa pubblica e di investimenti.
Se il ministro Tria dice il vero, alla fine ci troveremo con il solito aumento del debito pubblico, un rapporto debito-pil sostanzialmente invariato, un deficit ampiamente al di sotto del 3%, ma altrettanto ampiamente al di sopra degli obiettivi fissati dall’Europa, che come si sa non pretende solo il rispetto del 3%, ma la progressiva discesa verso il pareggio di bilancio. Insomma la solita manovra da 25-30 miliardi, con spostamenti di pochi decimali nell’allocazione delle risorse e dei costi.
Tutto bene, dunque?
Niente affatto. Se il fatto che il governo, grazie al ruolo assunto da Tria, si muova con prudenza e gradualismo non può che rassicurarci, non possiamo d’altra parte ignorare i segnali che arrivano dai mercati finanziari. Che sono tutti negativi: capitali in fuga dall’Italia, borsa fragile, spread dei titoli di Stato in aumento. E si noti che l’aumento dei rendimenti non è solo rispetto alla Germania, ma anche rispetto alla Spagna, al Portogallo, e persino alla Grecia. Non era mai successo, nemmeno nel 2011, che i titoli di Stato italiani fossero i più cari dell’Eurozona dopo quelli della Grecia. Oggi il rendimento dei titoli italiani sfiora il 3%, quello dei titoli greci oscilla intorno al 4%, mentre Portogallo e Spagna (gli altri due Pigs mediterranei) sono entrambi nettamente sotto il 2%.
Ecco perché la prudenza del ministro Tria potrebbe non bastare. L’esperienza del passato dovrebbe aver insegnato che il destino di un paese dipende molto di più dalla sua capacità di rassicurare i mercati che dalla sua capacità di ingraziarsi le autorità europee. E’ già successo nel 2011, quando la manovra Tremonti ricevette le lodi dell’Europa e due settimane dopo venne fatta a pezzi dai mercati. Potrebbe risuccedere nei prossimi mesi, se agli investitori l’Italia cominciasse a sembrare un mercato ancora meno appetibile di quanto appare oggi.
Oggi questo è il vero pericolo, per il nostro paese. Un pericolo rispetto al quale le forze politiche avrebbero il dovere di vigilare, senza guardare al proprio piccolo tornaconto elettorale. Vale per chi ci governa, ma vale anche per l’opposizione. Perché anche su questo, sul rischio di un’impennata dello spread, la continuità è impressionante. Contrariamente a quel che molti credono, il deterioramento dei differenziali fra l’Italia e gli altri paesi dell’euro, in particolare Spagna, Portogallo e Grecia, non è iniziato il 4 marzo, ma oltre un anno prima, più o meno in concomitanza con la sconfitta referendaria e il passaggio del testimone da Renzi a Gentiloni.
Ancora un segno di continuità, o forse il vero tratto distintivo, il marchio di fabbrica, del ceto politico degli ultimi cinquant’anni: diviso su tutto ma, con pochissime eccezioni, assolutamente unito nella scelta di non contrastare la crescita del debito pubblico.