Fare attenzione
I cartelli di pericolo ci esortano a fare attenzione. Attenzione al gradino, all’incrocio, al passaggio di animali, alle buche. Se no cadiamo, precipitiamo, anneghiamo, scivoliamo. Senza attenzione, ci facciamo male.
Anche a scuola l’insegnante esorta gli allievi, da secoli: State attenti! Vuol dire che è bene ascoltare la lezione trattenendo qualcosa nella memoria, o badare a non fare errori nelle verifiche in classe.
Mi ha colpito, in questi giorni, una frase di Philip Roth che ho letto in un’anticipazione dei suoi scritti nonfiction, appena pubblicati da Einaudi: Perché scrivere? Saggi conversazioni e altri scritti. La frase riguarda un aneddoto della sua infanzia, quando andava ogni quindici giorni nella piccola biblioteca di quartiere, prendeva cinque o sei libri in prestito e li portava a casa nel cestino della bici. Ecco, Roth dice che scrivere è parlare di quel cestino, evocarlo, descriverlo. Mettere attenzione ai particolari. È bellissimo questo, ha ragione. Se scrivesse solo che si portava a casa i libri della biblioteca, non sarebbe letteratura (secondo una certa idea di letteratura, almeno…). Diverso dire che se li metteva nel cestino della bici. È quel cestino, il centro. Perché così noi lo vediamo, quel bambino che pedala verso casa, con i libri che gli sballonzolano nel cestino. E, poiché lo vediamo, non è più soltanto lui: siamo tutti noi. Uguale: letteratura.
Scrivere è far vedere le cose, leggere è vedere. Se azzeriamo i particolari, il gioco finisce.
Credo che l’attenzione sia un bene prezioso, una qualità che l’essere umano decide o no di usare, e di coltivare. Credo sarebbe meglio che decidesse di usarla, e vivesse con attenzione, osservando le cose e le persone nei particolari. Vale per la scrittura, ma direi in generale per la vita.
Scrivere è certamente fare attenzione. No, lo dico meglio: scrivere è vivere facendo attenzione.
(Ecco perché si è scrittori anche quando non si scrive: perché si vive in un certo modo, osservando, ascoltando. Captando segnali ovunque lo si possa fare).
L’altro giorno una ragazza mi ha chiesto come s’impara a scrivere un romanzo. Domanda a cui non ho mai saputo rispondere. Neanche a scuola sapevo insegnare a scrivere… Una non-qualità che mi è stata spesso imputata, da genitori e colleghi. Be’, a quella ragazza ho risposto proprio questo: per imparare a scrivere bisogna osservare con attenzione. Mi ha chiesto:
Osservare cosa?
Tutto, i gesti delle persone, le scarpe, i colori dell’autunno, le scatole dei pelati, i topi di fogna che passano lungo il fiume, la piega dei pantaloni di un manager, le briciole che ti cadono sul maglione. E ovviamente i sentimenti, tuoi e degli altri.
Si osservano i sentimenti?
Certo che sì.
E come?
Be’, di questo dovremmo parare a lungo, adesso mi scusi ma devo andare…
Fuga? Sì, fuga. A gambe levate.
Mi soccorre, per fortuna, Hemingway. Trovo un suo librino meraviglioso, dell’editore che ormai è diventato il mio preferito: parlo delle edizioni Henry Beyle, di Vincenzo Campo. Il libro s’intitola Lettere dall’alto mare sullo scrivere, e già da qui, dal titolo, come non saltare sulla sedia dalla felicità? Lo leggo tutto. Sottolineo ogni riga, e vorrei parlare di questo libro a ogni Paginetta. Ma oggi mi limiterò a passarvi queste parole, sentite qua: “Come scrittore non dovresti giudicare. Dovresti capire. E poi ascolta. Quando la gente parla ascoltala totalmente. Non pensare a quello che dovrai dire. La maggior parte della gente non ascolta mai. E neanche osserva. Dovresti essere capace di entrare in una stanza e quando esci sapere tutto quello che hai visto”.
Non pensare a quello che dovrai dire… com’è vero! Ascoltiamo sempre pensando a quel che poi ci toccherà rispondere, alla bella figura che, rispondendo, ci piacerebbe fare! Non ascoltiamo mai la domanda. Non facciamo per niente attenzione a quel che l’altro ci chiede o ci dice, prestiamo attenzione soltanto a noi, a quel che gli altri penseranno di noi a seconda di come avremo risposto. Non è ascoltare, questo, è guardarsi allo specchio. È stare chiusi dentro un perenne esercizio di egocentrismo. Insuperabili, in questo paradossale non-ascolto, sono proprio coloro che per mestiere fanno domande: gli intervistatori della tivù, per esempio. Lo vediamo chiaramente che, mentre l’intervistato risponde alla domanda numero 1, il conduttore non ascolta la risposta ma pensa alla sua domanda successiva.
Bisogna, allo stesso modo, osservare molto. Osserviamo? Normalmente no, direi. Usiamo gli occhi, certo, li mandiamo a destra e manca. Guardiamo, vediamo, registriamo visivamente cose e persone. Ma osserviamo mai davvero? Mettiamo attenzione ai particolari, esterni ed interni? Voglio dire, tanto il gesto del nostro gatto di pulirsi i baffi, quanto i nostri imbarazzi, risentimenti, le nostre soddisfazioni, irritazioni e improvvise felicità? Questo dicevo alla ragazza. Anche senza prendere appunti, non importa: quel che avremo osservato, poi entrerà in qualcosa che scriveremo, senza volerlo, quando meno ce lo aspettiamo.
Anche leggere è fare attenzione. Alle parole, non alla trama. Sono le parole che fanno un libro, il modo in cui la storia è raccontata vale di più della storia in sé. Il romanzo di Manzoni è un capolavoro per come l’ha scritto, la trama si ridurrebbe più o meno a questo: due giovani vogliono sposarsi, ma un giovinastro del paese s’invaghisce della promessa sposa e impedisce il matrimonio. Pochino.
Leggere è prestare un’attenzione spasmodica alle parole, ai legami, alla posizione all’interno della frase, ai possibili sinonimi, alla loro ambiguità, e possibile molteplicità di sensi. Indugiare con amore sulle parole, amarle, una per una.
Filologia vuol dire questo.
L’attenzione. Viene da attendere, rivolgere l’animo, la mente a qualcosa. Implica concentrazione, riflessione, interesse, impegno. Diligenza, cura, prudenza, riguardo, cortesia. Per le persone e per le cose.
Per esempio l’educazione dei figli esige attenzione. Il genitore attento è colui che osserva e ascolta il figlio. Sta in silenzio a guardare ogni sua minima mossa, ogni rossore, ogni pianto o sorriso. E ne indaga il senso. Si chiede qualcosa intorno a quel che osserva. Inevitabilmente interpreta, e può anche fraintendere. E forse un’idea del figlio se la farà soltanto dopo molti anni, e sarà comunque un’idea parziale, limitata, e forse persino sbagliata. È così. Siamo difettosi, “esseri manchevoli”, anche come genitori. Non è detto che li capiamo davvero nel profondo, i nostri figli. Ma l’importante sarà averli osservati e ascoltati: aver dato loro la nostra attenzione. Nel qual caso, è possibile anche che perdoneranno i nostri errori.
In una parola, l’attenzione è amore.
Ancor più, sicuramente, l’amore è attenzione.
Lo ha sempre detto Susanna Tamaro nei suoi libri. Anche nell’ultimo, appena uscito, Il tuo sguardo illumina il mondo (edizioni Solferino), dedicato all’amico poeta Pierluigi Cappello. A un certo punto dice: “Cos’è infatti l’amicizia se non un’attenzione paziente e amorosa alla vita dell’altro?”.
L’attenzione è in pericolo oggi?
Stiamo smettendo di stare attenti, di prestare attenzione?
Alcuni di noi hanno qualche apprensione riguardo al mondo digitale e robotico che verrà, proprio perché è possibile che ci tolga attenzione. O così ci pare che potrebbe succedere: per esempio ci viene il dubbio che non saremo più capaci di restare concentrati su quel che facciamo, diciamo, scriviamo o ascoltiamo. Questo preoccupa un po’ alcuni di noi, per quel discorso sull’amore, sull’attenzione che è amore e viceversa…
Ma poi ci passa. Pensiamo che il mondo andrà dove deve andare ed è bene così, l’essere umano troverà altri modi di stare “attento”, oppure scoprirà che può benissimo farne a meno.
Personalmente, sono molto tranquilla. Credo per esempio che, nonostante il proliferare di tablet, instagram, iphone e altro, e anche nell’ipotesi che diventeremo un corpo computerizzato (cioè che prima o poi ci immetteranno, in un braccio o tra le costole, un meccanismo elettronico) credo che continueremo a camminare sulle spiagge, dove batte l’onda, per respirare ozono, per guardare il mare. Dunque, credo che continueremo a stare attenti: ai sassi, alle conchiglie, ai piccoli vetri verzolini, a quei frammenti di bottiglia che il mare ha levigato per mesi, anni (o secoli? non ho mai avuto chiaro quanto ci metta il mare a prendersi un pezzetto di vetro e a restituircelo così tondo e liscio).
Sono quasi certa che accadrà, perché l’attrazione del mare, del camminare sulle spiagge e raccogliere sassi, è insostituibile e inalienabile e si manterrà intatta nei millenni a venire. Ed questa eternità del mare – o meglio, del rapporto tra noi e il mare e i suoi sassi – la cosa su cui possiamo contare, e che ci rende fiduciosi del futuro, pur così tecnologicamente nebuloso.
Presteremo sempre attenzione, raccogliendo i sassi del mare.
E adesso, dopo aver tanto elogiato l’attenzione, mi verrebbe da elogiare la distrazione.
Ma aspetto le prossime Paginette.